Come si legge nella quarta di copertina “Femminote, sono le donne descritte da Stefano D’Arrigo in Horcynus Orca
Erano donne di commerci e di sale. Contrabbandiere per necessità, nascondevano il prezioso minerale nella doppia fodera dei loro vestiti. Nel coraggio, nei corpi forti e ben fatti, nel senso di liberà, nella fatica di queste donne ho ritrovato mia madre. Lei aveva le gambe possenti dipinte da Tamara De Lempicka. Alta di statura, con mani grandi come ventagli, capaci di uccidere un uomo solo stringendolo alla gola. Era così. Ed era mia madre. Accanto al suo corpo apparivo e mi sentivo una virgola di femmina troppo simile alla normalità di mio padre. Lui, pur alto, era un uomo delicato”.
Nel romanzo si raduna un catalogo di memorie vividissime che appartengono al vissuto dell’autrice. La narrazione usa registri deversi. Si compone in una ampia parte in forma epistolare: lettere in cui ricostruisce un rapporto e dialoga con la madre e col padre, l’intreccio e il rincorrersi di passati e presente, il racconto dell’impatto che le vicende autobiografiche hanno avuto e continuano ad avere sulle scelte, il gusto e i valori della donna matura di oggi e della scrittrice.
Quello di cui Ada Celico scrive riguarda non solo la propria storia, quella di sua madre, di suo padre, ma anche la storia della Calabria.
Riguarda la letteratura con il collante di Horcynus Orca, questo monumento della letteratura italiana in cui le Femminote acquistano identità e dignità. E l’acquistano attraverso l’artificio della scrittura. Sono tante le donne calabresi e non solo che, pur non ricoprendo il ruolo di Femminote e non abitando nella stessa zona della Calabria, ricalcano i tratti, i comportamenti, l’anticonformismo, l’audacia e la straordinaria forza di queste figure leggendarie.
Questo corpo di ricomposizione e risignificazione affettiva ci viene consegnato con una tensione costante, un patos comunicativo ininterrotto, dall’inizio alla fine.
Anna Petrungaro
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